Capitolo 1
Osservare i
treni in partenza e in arrivo sui binari della stazione ferroviaria,
gli era piaciuto fin da bambino. Gli piaceva così tanto, che da
adulto aveva preso in affitto un appartamento, al terzo piano di un
condominio confinante con la stazione ferroviaria di Barazzo. Ogni
mattina osservava il via vai di viaggiatori e pendolari che salivano
e scendevano dai treni, in tutte le stagioni dell’anno, mentre
affacciato alla finestra del bagno, si faceva la barba con il rasoio
elettrico.
Osvaldo
Pinelli amava ascoltare gli annunci dei treni in partenza, mentre si
lavava i denti e conosceva tutti gli orari. La visione di tutte
quelle persone in movimento gli procurava un effetto rilassante,
simile a quello che si può provare guardando un acquario di pesci
tropicali. Aveva solo trentanove anni, ma il declino fisico era
iniziato dieci anni prima: i capelli prima folti e lisci, si erano
fatti radi ed il ciuffo bruno che un tempo gli sfiorava gli occhi,
aveva lasciato il posto ad una piazza glabra, che si era allargata
negli anni fino quasi alla nuca. Le spesse lenti da astigmatico, gli
ingrandivano a dismisura gli occhi castani, rendendogli lo sguardo
simpatico, ma un po’ bovino. I chili in eccesso si erano
concentrati sul giro vita, regalandogli così, una morbida silhouette
a pera.
Era ancora
in mutande e canottiera, mentre saliva sulla bilancia per il rito
della pesata mattutina. La moglie, gli aveva imposto l’ennesima
dieta ipocalorica, che lui fingeva di seguire e che in realtà non
seguiva affatto. A pranzo non rientrava a casa e pranzava da solo al
ristorante, che sceglieva accuratamente in base alle specialità
della settimana, con rimborso spese da parte del datore di lavoro.
Alla sera mangiava trenta grammi di riso bollito e due zucchine
lesse preparate dalla moglie, omettendo il fatto, di aver cenato
poco prima di rincasare, alla rosticceria cinese takeaway, che si
trovava al piano terra del condominio. E quando la donna chiedeva
cosa fosse quello strano odore di involtino primavera, che aleggiava
nell‘aria, lui iniziava ad accusare l’amministrazione comunale di
non eseguire i controlli necessari ai camini di aspirazione fumi di
tutti i ristoranti orientali della zona.
Il profumo
di caffè proveniente dalla cucina, lo aveva fatto scattare giù
dalla pedana, prima che l‘ago della bilancia superasse i 120 chili,
per assolvere il primo compito mattutino. Era lui l’addetto alla
colazione. Beveva una tazzina di caffè in piedi e poi preparava il
vassoio per la moglie Giovanna, che ancora riposava nel letto.
L’aveva sposata quindici anni prima e ora portava ancora avanti
questo matrimonio, ma senza troppa convinzione.
Dopo i primi
anni senza grandi emozioni, le differenze tra i due coniugi erano
cresciute in maniera esponenziale e diametralmente opposta, riducendo
il loro rapporto ad una convivenza imbiancata: ormai viaggiavano in
direzioni completamente diverse. Lui, da sempre curioso e amante
della buona cucina, dei buoni vini, pigro, disordinato e passionale,
si trovava accanto una donna perennemente a dieta, eccessivamente
magra da sembrare una bambola sgonfia, nevrotica, apatica e frigida.
Caratteristiche che con il passare del tempo, avevano causato
all’uomo l’effetto di una castrazione chimica e sentimentale.
Giovanna doveva avere tutto sotto controllo, tutto doveva rientrare
nelle sue previsioni seguendo un ordine preciso, come la merce negli
scaffali del supermercato dove lavorava. Verso i trent’anni, alla
comparsa delle prime rughe, aveva pensato di iniziare a sostituirsi
qualche pezzo e così erano arrivate prima le protesi al seno e poi
le labbra rimpolpate. Aveva completato il tutto con il rinfoltimento
della chioma, grazie ad “extension” di capelli veri di
provenienza indiana e trucco permanente.
Osvaldo la
osservava sdraiata nel letto, mentre le portava il vassoio con la
colazione in camera, guardava con sospetto quel viso con le
sopracciglia tatuate, le labbra a canotto e il corpo molle con la
pelle in eccesso, i seni a palloncino duri come il marmo, che
contrastavano la forza di gravità e apparivano completamente
estranei al resto. Osservandola ancora più attentamente, Osvaldo si
stupiva, ogni giorno di più, di come la moglie iniziasse ad
assomigliare vagamente al trans brasiliano che batteva di notte
vicino al portone del condominio: forse erano prodotti dello stesso
chirurgo estetico.
Come ogni
giorno, in punta di piedi per non svegliarla, appoggiava il vassoio
con la colazione sul comodino: un bicchiere di acqua, una tazzina di
caffè, due biscotti secchi, solo due. Lei in realtà era già
sveglia, ma mai una volta si voltava per salutarlo, mai una volta gli
diceva un - Grazie! -, mai, un - Buongiorno amore - solo silenzio;
quando ormai Osvaldo si era voltato e apriva la porta per uscire
dalla stanza, lei allora apriva gli occhi e diceva: -ricordati di
portare fuori il cane, prima di andare al lavoro!!!-
Già, il
cane. Prima il cane e poi l’uomo. Questa la rigida gerarchia di
Giovanna. La cagnetta bianca, di circa un anno, ma con un albero
genealogico da far invidia alla regina di Spagna, infiocchettata,
profumata e perfettamente tosata presso il salone del cane più
“cool“ della città, alzava il musetto in tono interrogativo
verso Osvaldo. Lui, non solo era l’addetto alla preparazione della
colazione, ma era anche l’addetto al bisognino mattutino del cane.
Questo era il compito che si era assunto per l‘eternità, per
espiare la colpa di aver fatto fuori, l’anno precedente, sedendosi
distrattamente sul divano senza guardare, un tenero chihuahua color
miele. La piccola Cocò, di taglia leggermente superiore al piccolo
Fifì, era stata dotata fin dai primi giorni di un campanellino al
collo, per segnalare acusticamente ogni suo piccolo spostamento.
Per lavoro,
Osvaldo doveva indossare abiti formali: completi blu, neri o grigi
classici, su camicie immacolate e cravatte scure, anche in estate.
Tutto ciò lo costringeva ad una perenne sauna finlandese, che
rovinava un po’ il look finale, facendolo apparire sempre e
comunque inadeguato al suo ruolo. No, non era uno di quegli impiegati
di banca che si incontrano in giro per la città in pausa pranzo, non
lavorava né come commercialista, né come assicuratore: loro erano
più fortunati, visto che lavoravano nell’aria condizionata. Lui,
era uno degli ultimi venditori di aspirapolvere “porta a porta”,
lavoro che svolgeva da anni, pur senza troppa convinzione. Le scarpe,
quelle eleganti e stringate erano sempre troppo strette oppure
sformate, i piedi sudavano e si gonfiavano senza rimedio. In caso di
sparizione improvvisa dell’uomo, Giovanna non avrebbe dovuto
partecipare ad uno di quei programmi televisivi, che si occupano di
persone scomparse: sarebbe stato sufficiente far annusare un calzino
usato di Osvaldo ad un Bloodhound, per rintracciarlo, in men che non
si dica, anche all’altro capo della Nazione, persino nel caso in
cui avesse percorso tutto il mare Adriatico a nuoto per far perdere
le sue tracce. Era pronto. Era arrivata l’ora della passeggiata
mattutina con Cocò.
Molto
spesso, Osvaldo, fissando negli occhi il piccolo barboncino toy della
moglie, si chiedeva rassegnato, chi fosse tra lui e il cane, il vero
animale domestico in quella casa.
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