Capitolo 9
Erano
le 19.00 e Osvaldo era sceso nell’ingresso della pensione,
aspettava Adele per recarsi insieme alla trattoria. Aveva indossato
un maglione ed una giacca sportiva: le serate di fine agosto a
Montegeloni erano abbastanza fresche e umide e il concerto si sarebbe
tenuto all’aperto. Il suono della batteria lo aveva già potuto
sentire distintamente dal balcone della sua camera, quando i
musicisti avevano fatto il soundcheck. La serata prometteva bene: un
bel piatto di salsicce e fagioli con una affascinante signora accanto
e una musica che, a detta di Toni, non lo avrebbe lasciato stare
seduto sulla sedia.
Ecco
finalmente Adele: jeans, un maglione sopra la camicia a righe e una
giacca a vento. Non aveva i capelli raccolti, li aveva lasciati
sciolti sulle spalle, con la riga in mezzo e due ciuffi laterali
bianchi che le incorniciavano il viso poco truccato. Aveva un sorriso
contagioso, come sempre, e una torcia elettrica in mano. Era passata
davanti a Osvaldo, entrando nel piccolo ufficio per cercare le chiavi
della porta della pensione e si era lasciata dietro una scia di
profumo dolce e avvolgente.
-
Andiamo! - disse Adele a Osvaldo, aprendo la porta. Era già quasi
buio, ma avevano comunque deciso di recarsi a piedi alla trattoria;
fare due passi con la torcia elettrica lungo il sentiero era molto
allettante, nel buio della notte. Nell’aria si sentiva già il
profumo delle salsicce in umido uscire dal retro della cucina della
trattoria e salire verso il sentiero. Mano a mano che scendevano,
sentivano anche il vociare delle persone sedute ai tavoli: il rumore
diventava sempre più forte. - Ci deve essere molta gente, stasera! -
disse Osvaldo alla donna - I concerti organizzati da Toni sono sempre
molto apprezzati, tanto più che stasera suona la band del paese! O
forse sono anche le salsicce e i fagioli, non so! - rispose la donna
- Come si chiama la band? - chiese ancora Osvaldo -The Boars! -
rispose Adele. Osvaldo si sentiva felice, provava una strana
eccitazione in corpo, gli sembrava di essere tornato indietro nel
tempo, di avere ancora l’entusiasmo dei vent’anni e l’illusione
di avere ancora un’intera vita davanti.
Erano
state allestite delle lunghe file di tavoli, le salsicce con il sugo
ed i fagioli scuri leggermente pepati arrivavano in larghe padelle di
ferro che venivano messe in mezzo alle tavolate, dove tutti potevano
servirsi: era facile, così, conoscere il vicino che ti sedeva
accanto e che ti passava la padella dopo essersi servito. Con il pane
casareccio si finiva facendo scarpetta sul fondo del piatto e
l’ultimo commensale della tavolata era autorizzato tacitamente a
farla anche sul fondo della padella. Dal bar arrivavano boccali di
birra locale, abbastanza forte e scura, prodotta da Bortolo
Magnabosco, che aveva ereditato una vecchia birreria artigianale nei
pressi del suo maso. L’aveva rimessa in funzione da qualche anno,
con l’aiuto di un paio di amici e riusciva a produrre birra in
discreta quantità, sufficiente per esaurirla in un paio di concerti
e la festa annuale del paese. Osvaldo aveva subito imparato che se
voleva un boccale di birra doveva chiedere - Un Bòrtol ! - che
peraltro, non era niente male. Un paio di Bòrtol riuscivano perfino
a domare e far diventare quasi simpatico anche Golìa Rapponi, il
macellaio, che finiva la serata giocando a carte con il Tassista in
un tavolo separato. Quest’ultimo si chiamava Oreste Corvetta e
faceva credere ai turisti e agli stranieri che passavano di là, di
fare il tassista. Era per questo che tutti, in paese, lo chiamavano
così. In realtà era un alcolizzato cronico, al quale avevano
ritirato definitivamente la patente e che passava le sue giornate al
bar della trattoria. La moglie Nilde si occupava di tutto, della
casa, della famiglia e dei campi e recuperava il marito al bar verso
mezzogiorno. Nilde aiutava anche Adele, di tanto in tanto, con le
pulizie della pensione, oppure si occupava di qualche anziano in
paese. Adele raccontava un po’ di ognuno ad Osvaldo e lo presentava
a tutti quelli che le capitavano a tiro, in particolare alle donne
che, seppur in minor quantità, erano venute anch’esse ad assistere
al concerto. Osvaldo si immergeva negli occhi verdi della donna,
l’accento francese sembrava accarezzargli le orecchie rosse e calde
per aver bevuto la birra, mentre il profumo di salsicce era stato
completamente soppiantato dal dolce profumo di Adele. Lui avvicinava
sempre più l’orecchio alla bocca di lei, perché mano a mano che
le persone finivano di mangiare, iniziavano a chiacchierare,
aumentando il volume della voce. Osvaldo continuava a stringere mani
e ricevere pacche sulle spalle dagli abitanti, incuriositi e
interessati alla professione dell’uomo e alla sua scopa elettrica.
Era incredibile la varietà di persone che affollava il prato della
trattoria: non erano sicuramente tutti gli abitanti del paese, ma
praticamente quasi tutti quelli di età compresa tra i venti e i
cinquanta anni. C’era pure il giovane parroco, Don Biagio, che
parlava con Bruna.
Ma
era tempo di musica: alcuni si erano ormai allontanati dai tavoli con
un bicchiere di birra in mano, per avvicinarsi di più al palco.
Osvaldo e Adele erano rimasti un po’ indietro, continuando a
chiacchierare. L’uomo si rivolgeva alla donna con interesse,
fissandola spesso negli occhi e si stupiva, non riuscendo a trovare
nessun particolare difetto in lei. La donna aveva delle mani piccole
e graziose, che muoveva gesticolando, facendo arrivare a ondate
continue il suo dolce profumo alle narici di lui.
Toni
era salito sul palco per annunciare l’inizio del concerto della
band. - The Boards!! - aveva urlato e tutto il pubblico si era
messo a gridare ed a applaudire. Avevano attaccato subito a suonare.
Toni
si era avvicinato ad Osvaldo e lo aveva informato del genere musicale
suonato dalla band - Fanno garage punk rock … Oppure punk rock da
fienile, sarebbe più corretto!! Ah, Ah! - Osvaldo non era un
intenditore, certo era musica forte, un po’ rockabilly, allegra,
prendeva. Infatti la sua gamba era già in movimento. Alla seconda
canzone si era alzato ed aveva rincorso Adele che era volata in mezzo
alla folla.
Il
frontmen, tale Libero “Lenìn” Malpassi, chiamato da tutti solo
Lenìn, era il chitarrista e il solista della band: un cantante dalla
voce bassa e graffiante, che sapeva stare sul palco “alla grande“.
Il suo nome aveva avuto origine dal conflitto politico tra i genitori
al momento della nascita. A Libero, voluto dalla madre perché era il
nome del nonno, simpatizzante di destra, era stato aggiunto Lènin,
dal padre, fervente comunista, in onore di Vladimir Ilyich Ulyanov,
detto appunto Lènin. Ma a Montegeloni i contadini non erano molto
politicizzati e pertanto Libero era stato chiamato sempre e solo
Lenìn, con l’accento sulla i, credendolo solo un nomignolo carino,
un soprannome derivato da leone, leonino, Lenìn, appunto.
Lenìn
aveva una cinquantina d’anni suonati al ritmo di rock, si muoveva
ballando sul palco. Sovrappeso, testa quadra, capello liscio
all’indietro, naturalmente unto. I capelli erano così scuri che
probabilmente erano stati tinti con il lucido da scarpe; vicino alle
orecchie in direzione del mento, aveva delle basette molto rock ‘n
roll. Lenìn non aveva collo, o, meglio, collo e doppio e triplo
mento si confondevano tra loro: la pelle ai lati della bocca era un
po’ cadente, come succede ai mastini.
Di
tanto in tanto suonava il tamburello, mollando la chitarra e quando
non aveva le mani occupate fumava o beveva birra. Aveva delle grandi
occhiaie, sotto gli occhi sporgenti, che denotavano una grande
propensione alla vita notturna. Spesso indossava occhiali da sole,
che lo facevano sembrare uno dei Blues Brothers.
L’abbigliamento
era molto rockabilly, jeans neri, camicia stretta sulla pancia
prominente, gilè di pelle nera e stivaletti a punta, neri
anch’essi, originali anni ‘80.
Aveva
un bel movimento di bacino e sottopalco aveva un gruppetto di
“groupies” un po’ su con gli anni, che lo incitavano, ballando
e saltando assieme ai loro seni esagerati e un po’ cadenti.
Gli
altri due componenti del gruppo erano almeno una decina di anni più
giovani. Il bassista, quarantenne dai capelli lunghi, lisci e
raccolti da una coda di cavallo bassa, aveva un fisico sportivo e
portava gli occhiali da miope. Si chiamava Athos Bonetti, il suono
del suo basso dava una forte impronta alla loro musica; era il
custode della scuola elementare e aveva sposato la maestra. Sapeva
suonare più di uno strumento ed era quello che metteva un po’ di
ordine nella band: preciso, determinato, aveva studiato al
conservatorio e dava lezioni di musica alle nuove generazioni del
paese. Il suono della band era talmente forte, che Osvaldo sentiva
batteria e basso rimbombare nello stomaco, o forse era anche il suo
cuore che aveva accelerato i battiti cardiaci, appena l’uomo aveva
iniziato a saltellare a ritmo di musica. Il movimento di tutti gli
spettatori messi assieme si era trasformato in pogo giocoso nelle
prime file, dove trovavano posto i più giovani.
Osvaldo
aveva già sfilato la giacca ed il maglione ed il sudore iniziava a
colargli dalla fronte e sul petto. Certo Adele non era da meno,
ballava urtando di tanto in tanto Osvaldo e poi lo guardava
sorridendo, fermandosi per applaudire e commentare la performance dei
musicisti. Aveva ragione Toni, impossibile restare fermi sulla sedia,
ma ogni tanto bisognava pur sempre allontanarsi dalla massa per bere,
asciugarsi un po’ il sudore e scambiare qualche parola lontano
dagli amplificatori. Il concerto procedeva con pezzi punk rock di
origine statunitense, alternando cover anni ‘70 ad altre anni ‘80.
Un pezzo stava finendo con un assolo di batteria e solo in quel
momento, Osvaldo aveva concentrato lo sguardo sul batterista, che
fino ad allora non aveva notato, poiché era arretrato sul palco
rispetto agli altri. Adele gli aveva spiegato che Zeno Ognibene, il
batterista, aveva una dote straordinaria: quella di riuscire a far
uscire un suono da qualsiasi cosa. Costruiva da sé tamburi,
xilofoni, flauti riciclando gli oggetti più impensabili. Da piccolo
si divertiva a suonare anche gli alberi secolari nel bosco, ed ancora
oggi non riusciva a partecipare ad una cena senza finire per far
suonare posate e bicchieri e brocche d’acqua. Nelle giornate estive
lo si poteva scorgere, di tanto in tanto, vicino al lago, mentre
raccoglieva le erbe più lunghe per suonarle, così, giusto per
passare il tempo. Per la musica del gruppo suonava una batteria
ridotta all’osso; pochi tamburi e pochi piatti, ma li suonava in un
modo incredibile. Le braccia e i piedi si muovevano singolarmente e
autonomamente, in rapida successione, ma era così veloce che faceva
venire il sospetto di avere almeno un arto in più, rispetto alla
normale dotazione umana. Era una specie di piovra musicale ed era un
gran picchiatore, musicalmente parlando. Osvaldo sudava felice: era
emozionato come non gli succedeva da anni. Chi ama la buona cucina,
ama tutto ciò che dà emozioni, aveva detto Miranda: la buona
cucina, il rock, il sesso. Già il sesso: saranno stati l’adrenalina
da concerto, il Bòrtol che gli aveva dato una strana euforia, gli
occhi verdi di Adele e il suo profumo, la sua voce sensuale con tanto
di accento francese attaccata all’orecchio… ma grazie a qualche
strano movimento, Osvaldo aveva avvertito che la zona del suo sub
ombelico aveva iniziato a dare qualche segno di vita. L’orso stava
finalmente uscendo dal letargo precoce in cui era piombato. Adele lo
aveva colpito e affascinato un bel po’. Per la prima volta dopo
tanti anni, provava interesse per una persona, quella donna, più
vecchia di lui di almeno dieci anni. Non cercava una storia di
sesso, o almeno, non solo. Magari l’avrebbe potuta anche
corteggiare con garbo, chissà. Nella sua mente pensieri romantici e
casti si alternavano a pensieri audaci e più spinti, guardando
Adele, che faceva intravedere un generoso decolté sotto la camicia
scollata. Le gocce di sudore scivolavano lungo lo sterno per sparire
tra i seni, al di là della fila di bottoni che nascondeva il resto.
Il concerto volgeva quasi al termine: Osvaldo era arrivato da appena
un giorno in quella valle bucolica, sperduta, dove per tre mesi
faceva freddo e per gli altri nove c’era la neve, ma al contrario
di quanto aveva immaginato, non si era mai sentito così bene.
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